Dignità
professionale o cultura dell’omertà?
Il 10 maggio 2000 i responsabili del DAP, a partire
da Caselli, e Mancuso, per arrivare a Di Somma, Gianfrotta e Ragosa, hanno
riunito i sindacati tutti per:
·
Deplorare
– senza voler entrare nel merito di una inchiesta in corso, si intende! –
l’operato della Magistratura di Sassari del quale si sono sottolineate con
malcelata soddisfazione le presunte prime evidenze di incapacità (aver
scarcerato gli autisti, aver individuato solo successivamente chi comandava l’operazione,
eccetera)
·
Concordare
misure per approntare un collegio di difesa per gli imputati dei fatti di
Sassari e sostenerne le famiglie
·
Sottolineare
il fatto che il D.G. del DAP è il Comandante del Corpo di Polizia Penitenziaria
e quindi – sillogismo categorico, si intende! – poiché Caselli è notoriamente
un uomo d’onore e poiché egli, per essere e continuare ad essere il Comandante
della P.P. “deve e vuole credere” che fatti come quelli di Sassari non sono
veri né sono solo la punta di un iceberg… allora vuol dire che fatti come
quelli non avvengono, non sono mai avvenuti, mai avverranno.
·
Impedire
ogni voce di dissenso, non solo quelle che vengono dal carcere, dalla società
civile, dal mondo politico, dalla stampa o dalla televisione, ma anche e soprattutto
il dissenso sindacale, si intende! Ed è
stato perciò impedito “per motivi di opportunità” che le R.d.B. prendessero la
parola!
·
Concordare
con tutte le sigle sindacali – meno una, si intende!, e cioè le R.d.B. – che la
risposta ai fatti di Sassari, come quella a qualsiasi altro aspetto della vita
carceraria, è quella di potenziare termini di migliaia di uomini e di svariati
miliardi di mezzi la Polizia Penitenziaria (il cui rapporto numerico rispetto
alle presenze di detenuti è il più alto d’Europa) e poi – si intende! – qualche
decina di educatori.
MA I GRILLI PARLANTI
DELLE RAPPRESENTANZE DI BASE, DENTRO O FUORI DALLE STANZE DEL POTERE, PARLANO E
FANNO AZIONE SINDACALE
perché hanno il preciso dovere di riportare al
centro dell’attenzione – insieme col fine istituzionale delle pene improntate
al senso di umanità e tendenti alla rieducazione del reo – la condizione del
personale del comparto ministeri che é quello cui principalmente compete la
realizzazione del trattamento rieducativo.
Le
sperequazioni numeriche, economiche, di carriera, di agibilità operativa, di
riconoscimento professionale tra P.P. e personale del comparto ministeri sono
tali e tante – e talmente aggravate dagli ultimi provvedimenti e dalle ultime
“dimenticanze” (vedi, ad esempio, “sequestro” degli effetti economici e
giuridici del contratto integrativo) – che il personale del comparto ministeri
dovrebbe essere protetto come specie minacciata di estinzione. Gli educatori e
gli assistenti sociali sono importanti – si intende! – ma quanti sono e in che
condizioni lavorano? E tutto il resto del personale civile? Di quello neanche
si dice che sia importante – anche se è quello che provvede e deve provvedere a
tutto ciò che concerne la vita del carcere – ad eccezione della sicurezza – ed
ovviamente anche per loro nessuno si occupa dei paurosi vuoti in organico, dei
compiti istituzionali “scippati”, delle disastrose condizioni lavorative (si
pensi, ad esempio, ai capi d’arte e agli operai responsabili delle officine
interne), della immobilità economica e lavorativa nell’ultimo quarto di secolo.
Ovviamente non tutto il personale si rende
protagonista di abusi, sfruttamento, omissioni, taglieggiamenti, vessazioni, violenze
e per fortuna – ne siamo fortemente convinti – si tratta di una minoranza. Il
rischio gravissimo che si corre in questo momento, però, è quello di pensare
che la dignità professionale, la collaborazione fra diverse figure, l’immagine
del DAP, la democraticità della pena si salvaguardino insabbiando e
nascondendo, tutelando o encomiando presunti colpevoli piuttosto che
perseguendo – costi quel che costi
- la affermazione della cultura del TRATTAMENTO
in carcere.
Roma, 11 maggio 2000
RdB
– Coord. Penitenziari