SENTENZA N. 296

ANNO 1993

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato l'11 dicembre 1992, depositato in cancelleria il 23 successivo, per conflitto di attribuzione sorto a seguito del decreto del Presidente della Giunta della Regione Sardegna 8 settembre 1992, n. 212, dal titolo "Norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo contrattuale per il triennio 1991-1993 relativo al personale dell'amministrazione regionale della Sardegna e degli enti pubblici strumentali della Regione", ed iscritto al n. 44 del registro conflitti 1992.

Visto l'atto di costituzione della Regione Sardegna;

udito nell'udienza pubblica del 30 marzo 1993 il giudice relatore Antonio Baldassarre;

uditi l'Avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'Avvocato Sergio Panunzio per la Regione Sardegna.

 

Ritenuto in fatto

 

l.- Con ricorso regolarmente notificato e depositato, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Regione Sardegna, in relazione al decreto del Presidente della Giunta regionale 8 settembre 1992, n. 212 (Norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo contrattuale per il triennio 1991-1993 relativo al personale dell'amministrazione regionale della Sardegna e degli enti pubblici strumentali della Regione), sul presupposto che quest'ultimo atto costituisca un esercizio illegittimo delle attribuzioni regionali, lesivo di competenze statali, in quanto adottato in contrasto con gli artt. 3, 97 e 116 della Costituzione, nonchè con gli artt. 3, lettera a), e 27 dello Statuto speciale per la Sardegna (Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n.3), in connessione con i principi contenuti negli artt. 1 e 13 della legge 29 marzo 1983, n. 93 (Legge-quadro sul pubblico impiego) e nell'art. 7, primo comma, del decreto legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonchè disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438.

Il ricorrente, in primo luogo, lamenta che il decreto regionale impugnato, nel recepire la disciplina contrattuale prevista per i dipendenti regionali relativamente al triennio 1991-1993, si sarebbe posto in contrasto con l'art. 7, primo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992, il quale, nell'ambito della finalità di contenimento del disavanzo pubblico che ispira il provvedimento d'urgenza nel suo complesso, stabilisce che, mentre "resta ferma sino al 31 dicembre 1993 la vigente disciplina emanata sulla base degli accordi di comparto di cui alla legge 29 marzo 1983, n. 93", al contrario "i nuovi accordi avranno effetto dal 1 gennaio 1994". Questa disposizione, la quale si inserisce in un contesto di norme complessivamente rivolto al congelamento temporaneo del trattamento economico dei dipendenti pubblici, introduce una deroga implicita alla regola della cadenza triennale degli accordi collettivi per il pubblico impiego stabilita dall'art. 13 della legge-quadro n. 93 del 1983, deroga che, ad avviso del ricorrente, dispiegherebbe la sua piena efficacia anche verso le regioni a statuto speciale sin dall'entrata in vigore del decreto-legge stesso (19 settembre 1992): infatti, l'art. 13 ter, introdotto in sede di conversione del decreto-legge per dichiarare quest'ultimo applicabile anche alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano, rientrerebbe, secondo il ricorrente, fra le eccezioni che l'art. 15, quinto comma, della legge 23 agosto 1988, n. 400, consente alla regola generale per la quale le modifiche apportate al decreto- legge in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge stessa. Su tale base, poichè il decreto regionale impugnato, benchè emanato l'8 settembre 1992, non era ancora efficace il 19 settembre 1992, in quanto era in corso il procedimento di registrazione presso la Corte dei conti (conclusosi il successivo 8 ottobre), ad esso si applicherebbero le disposizioni contenute nel decreto-legge n. 384 del 1992. E, dal momento che è palese il contrasto, rispetto a quest'ultimo decreto- legge, dell'atto impugnato - che, nel recepire l'accordo per i dipendenti regionali relativamente al triennio 1991-1993, ignora il vincolo a differire al 1 gennaio 1994 il nuovo accordo e conferisce, così, immediato effetto ai miglioramenti riguardanti il trattamento economico complessivo e singole voci di indennità (artt. 10, 11 e 12 dell'accordo) -, ne consegue il pregiudizio, con violazione del limite degli "interessi nazionali", rispetto alla finalità di contenimento del disavanzo pubblico perseguita dalla politica economica statale. Per le stesse ragioni, precisa il ricorrente, risulterebbero altresì lesi il principio di parità di trattamento fra i cittadini (art. 3 della Costituzione) e quello del buon andamento della pubblica amministrazione (art.97 della Costituzione).

In secondo luogo, il ricorrente ritiene che l'atto impugnato violerebbe i limiti statutariamente posti all'esercizio della competenza legislativa in materia di trattamento economico del personale regionale (art. 3, lettera a), dello Statuto speciale), limiti che dovrebbero valere anche in relazione alla produzione di norme secondarie, come quelle oggetto di impugnazione.

Infatti, il decreto del Presidente regionale che recepisce l'accordo di comparto sopraindicato contravverrebbe alla deroga temporanea apportata dall'art. 7, primo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992 al principio, avente natura di norma fondamentale delle riforme economico-sociali, espresso dall'art. 13 della legge-quadro sul pubblico impiego.

Infine, entrando in un altro ordine di censure, il ricorrente osserva che il procedimento di formazione dell'atto di recezione degli accordi collettivi in questione appare viziato alla luce dell'art. 27 dello Statuto speciale per la Sardegna. Dopo aver ricordato che, sulla base di tale parametro costituzionale, la Corte costituzionale ha già dichiarato che i regolamenti regionali non rientrano nella competenza della Giunta, bensì in quella del Consiglio (v. sent. n. 371 del 1985), e dopo aver sottolineato che, anche sulla base della legge nazionale sul pubblico impiego, la recezione degli accordi di comparto avviene con atti cui deve esser riconosciuta natura regolamentare, il ricorrente osserva che l'adozione dell'atto impugnato con decreto del Presidente regionale, previa deliberazione della Giunta, deve ritenersi contrastante rispetto al sopraindicato parametro statutario. Ma, poichè l'incostituzionalità ora accennata deve farsi risalire all'art. 3, ultimo comma, della legge regionale 25 giugno 1984, n. 33 - il quale prevede che le norme risultanti dagli accordi sindacali sul pubblico impiego siano adottate con decreto del Presidente regionale su delibera della Giunta - appare al ricorrente che sia pregiudiziale, ai fini della risoluzione del conflitto di attribuzione, che la Corte costituzionale sollevi di fronte a se stessa questione di costituzionalità della norma di legge regionale cui l'atto impugnato nel presente giudizio si è conformato.

2.- Si è costituita in giudizio la Regione Sardegna per chiedere che il ricorso venga dichiarato inammissibile o, in ogni caso, infondato.

Sotto il primo profilo, la Regione resistente osserva, innanzitutto, che in realtà il ricorrente non avrebbe sollevato un conflitto concernente attribuzioni statali o regionali di rango costituzionale, ma avrebbe semplicemente prospettato una questione di conformità della disciplina contrattuale recepita con il decreto regionale impugnato rispetto a una legge statale, cioè avrebbe posto una questione la cui risoluzione rientra nelle competenze del giudice amministrativo. Inoltre, nel rilevare, sotto altro profilo, un presunto vizio di forma dell'atto regionale denunziato, il ricorrente avrebbe sollevato una ulteriore questione anch'essa inammissibile, dal momento che il parametro costituzionale invocato, cioè l'art. 27 dello Statuto speciale per la Sardegna, non delimita competenze regionali da quelle statali, ma stabilisce una norma organizzativa interna alla regione, vòlta a distribuire le competenze fra Giunta e Consiglio regionale. Per tale aspetto, secondo la resistente, l'ipotizzata violazione dello Statuto non potrebbe dare origine ad alcuna invasione di qualsivoglia competenza statale.

Quanto al merito del conflitto, la Regione Sardegna contesta la ricostruzione operata dalla parte ricorrente in relazione alla applicabilità del decreto-legge n. 384 del 1992 all'accordo recepito con l'atto impugnato, ponendo in dubbio la data di decorrenza della norma contenuta nell'art.13 ter del predetto decreto-legge, che estende l'applicabilità di quest'ultimo alle regioni a statuto speciale. Tale articolo, infatti, essendo stato introdotto soltanto in sede di conversione, dovrebbe avere effetto limitatamente agli accordi conclusi all'indomani della data di entrata in vigore della legge di conversione del citato decreto-legge - cioé la legge 14 novembre 1992, n. 438 - considerato che in quest'ultima manca l'espressa disposizione contraria richiesta dall'art. 15 della legge n. 400 del 1988.

Tuttavia, anche a voler anticipare gli effetti di quella clausola alla data di entrata in vigore del decreto-legge, vale a dire al 19 settembre 1992, questa sarebbe comunque successiva alla data di emanazione del decreto del Presidente della Giunta oggetto del conflitto in esame, cioé l'8 settembre 1992, alla quale il provvedimento di registrazione della Corte dei conti fa retroagire l'acquisto della efficacia del decreto stesso.

In relazione alla prospettazione da parte del ricorrente dell'esigenza che la Corte costituzionale sollevi di fronte a se stessa questione di legittimità costituzionale, la Regione resistente osserva che quest'ultima sarebbe comunque inammissibile, considerato che tenderebbe a ottenere una declaratoria d'incostituzionalità aggirando illegittimamente l'osservanza del termine posto allo Stato per l'impugnazione in via diretta delle leggi regionali. In ogni caso, tale questione sarebbe anche infondata, dal momento che la norma impugnata si limiterebbe a trasferire a livello regionale le stesse procedure previste a livello statale dall'art. 6 della legge n. 93 del 1983.

3.- In prossimità dell'udienza la Regione Sardegna ha depositato una memoria, nella quale insiste soprattutto sulla presunta inammissibilità del conflitto a causa della natura non costituzionale dello stesso. Quanto al merito, dopo aver ribadito la propria posizione sull'asserita inammissibilità della questione di legittimità costituzionale relativa all'art. 3, u.c., della legge regionale n. 33 del 1984, la Regione, in riferimento al profilo attinente all'art. 27 dello Statuto speciale, nega che il decreto del presidente regionale oggetto del conflitto possa essere configurato come atto avente natura regolamentare. Quest'ultima, infatti, dovrebbe escludersi, oltrechè per l'origine negoziale delle relative statuizioni, in ragione della durata limitata nel tempo della disciplina prevista (v. sul punto sent. n. 569 del 1988 di questa Corte).

 

Considerato in diritto

 

l.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Regione Sardegna in relazione al decreto del Presidente della Giunta regionale 8 settembre 1992, n. 212 (Norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo contrattuale per il triennio 1991-1993 relativo al personale dell'amministrazione regionale della Sardegna e degli enti pubblici strumentali della Regione), adducendo che l'atto impugnato costituisce esercizio di competenze regionali comportante turbativa nei confronti di attribuzioni statali con violazione degli artt. 3, 97 e 116 della Costituzione, dell'art. 3, lettera a), dello Statuto speciale per la Sardegna (Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n.3), in connessione con gli artt. 1 e 13 della legge 29 marzo 1983, n. 93 (Legge-quadro sul pubblico impiego) e con l'art. 7 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonchè disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438, oltrechè con violazione dell'art. 27 del già ricordato Statuto speciale per la Sardegna.

Più precisamente, il ricorrente fa valere due distinti, ma concorrenti, profili di lesione delle proprie attribuzioni costituzionali. Innanzitutto, esso ritiene che l'impugnato atto di recezione degli accordi di comparto per il personale regionale pregiudichi sostanzialmente le finalità di politica economica generale sottese al congelamento del trattamento economico dei pubblici dipendenti fino al 31 dicembre 1993, disposto dal citato art. 7 del decreto-legge n.384 del 1992, ponendosi così in contrasto con gli interessi nazionali e violando, altresì, il limite delle "norme fondamentali delle riforme economico-sociali", rappresentato dalle disposizioni della legge-quadro sul pubblico impiego (art. 3 dello Statuto speciale), nonchè gli artt. 3, 97 e 116 della Costituzione. Inoltre, lo stesso ricorrente prospetta la violazione, da parte dell'atto impugnato, dell'art. 27 dello Statuto speciale, essendo stati recepiti gli accordi in questione con un provvedimento del Presidente della Giunta regionale, anzichè, come è richiesto dalla indicata norma dello Statuto per gli atti di natura regolamentare, da una deliberazione del Consiglio regionale. In relazione a quest'ultima questione, peraltro, il ricorrente fa presente che, poichè la forma del decreto del Presidente della Giunta regionale è prescritta per la recezione dei sopraindicati accordi dall'art. 3, u.c., della legge regionale 25 giugno 1984, n. 33 (Norme attuative della legge-quadro sul pubblico impiego), appare pregiudiziale all'accoglimento del ricorso per l'aspetto considerato che la Corte costituzionale sollevi di fronte a se stessa questione di legittimità costituzionale del citato art. 3 per violazione dell'art. 27 dello Statuto speciale per la Sardegna.

Preliminarmente al merito, occorre procedere all'esame di una duplice eccezione di inammissibilità prospettata dalla Regione Sardegna. Secondo quest'ultima, il primo dei profili sollevati sarebbe inammissibile per il fatto che il ricorrente, anzichè lamentare una lesione di attribuzioni di rango costituzionale, proporrebbe una questione di conformità di un atto amministrativo, qual è quello impugnato, rispetto a norme di legge ordinaria, dando così vita a una controversia esulante dalle competenze proprie di questa Corte e rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo.

Ad avviso della regione resistente, anche il secondo profilo sarebbe inammissibile, poichè lo Stato, invocando la lesione dell'art. 27 dello Statuto speciale, prospetterebbe la violazione di una norma organizzativa volta a disciplinare la distribuzione delle competenze fra organi interni alla Regione (Giunta o Consiglio regionale), in relazione alla quale lo stesso Stato non potrebbe avere alcun interesse a ricorrere.

2.- Vanno innanzitutto disattese le eccezioni d'inammissibilità formulate dalla Regione Sardegna.

In ordine all'asserita mancanza dei presupposti oggettivi del conflitto di attribuzione fra Stato e regioni, dovuta alla presunta prospettazione di lesioni meramente interessanti disposizioni di legge ordinaria, occorre semplicemente osservare che le leggi che si assumono violate sono indicate dal ricorrente come espressive di interessi nazionali inderogabili ovvero come norme fondamentali di riforma economico-sociale, di modo che in esse viene individuato il contenuto di un limite costituzionale che l'art. 3 dello Statuto speciale per la Sardegna pone all'esercizio delle competenze legislative e amministrative attribuite alla Regione resistente.

Riguardo alla pretesa carenza di interesse a ricorrere dello Stato in relazione al profilo attinente all'art. 27 dello Statuto speciale, è sufficiente ricordare che, secondo un orientamento ormai consolidato, la figura dei conflitti di attribuzione comprende ogni ipotesi in cui dall'illegittimo esercizio di un potere altrui consegue la menomazione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente assegnate all'altro soggetto (v., da ultimo, sent. n. 204 del 1991). E poichè il conflitto è insorto per l'asserita turbativa arrecata al pieno dispiegamento di attribuzioni statali in conseguenza di un atto di esercizio di competenze regionali ritenuto illegittimamente interferente con le predette attribuzioni, è innegabile che la prospettata violazione dello Statuto speciale da parte del provvedimento in ipotesi lesivo, riconducibile a un vizio di competenza, sia in grado di legittimare lo Stato a ricorrere attraverso il conflitto di attribuzione al fine di pervenire al ripristino della legalità violata e, più precisamente, al fine di accertare quale sia l'organo effettivamente competente a porre in essere l'atto interferente con le attribuzioni statali.

3.- Il ricorso merita l'accoglimento.

Non vi può esser alcun dubbio che, per quanto concerne il contenuto dispositivo, il decreto del Presidente della Giunta regionale della Sardegna 8 settembre 1992, n. 212, il quale recepisce gli accordi di comparto per i dipendenti regionali relativamente al triennio 1991-1993, si pone in evidente contrasto con l'art. 7 del decreto-legge n. 384 del 1992.

Quest'ultimo, infatti, contiene un'articolata disciplina della cadenza temporale relativa all'applicabilità degli accordi di comparto per tutti i pubblici dipendenti, che è senz'altro difforme e incompatibile rispetto a quella stabilita con l'atto impugnato.

In particolare, l'art. 7, primo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992 prevede una deroga eccezionale e temporanea alla regola della ordinaria successione della disciplina derivante dagli accordi di comparto nel pubblico impiego stipulati ai sensi della legge n. 93 del 1983. Più precisamente, la regola ordinaria ora considerata è posta dall'art. 13 della legge-quadro sul pubblico impiego (riprodotta testualmente nell'art.4, ultimo comma, della L.R.25 giugno 1984, n. 33: Norme attuative della legge quadro sul pubblico impiego), il quale, nel prevedere la durata triennale degli accordi (primo comma), pone, a garanzia di una ordinata successione nel tempo della disciplina contrattuale, una norma di chiusura per la quale l'efficacia degli accordi applicabili in un dato momento va conservata in via provvisoria sino all'entrata in vigore dei nuovi accordi, fermo restando che questi ultimi, una volta stipulati e resi efficaci, "si applicano dalla data di scadenza dei precedenti accordi" (secondo comma). Per ragioni attinenti al perseguimento di una rigorosa politica di contenimento del disavanzo finanziario nel settore pubblico, tale ultrattività dell'efficacia degli accordi di comparto, prevista dall'art. 13 come situazione provvisoria in attesa dell'applicabilità dei successivi contratti, viene imposta come situazione stabile sino al 31 dicembre 1993, con riferimento a tutti i rapporti di lavoro dipendente del settore pubblico, in virtù dell'art. 7, primo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992.

In altri termini, l'articolo da ultimo menzionato prevede una sospensione della regola posta dall'art. 13 della legge- quadro sul pubblico impiego, stabilendo un regime derogatorio secondo il quale "la vigente disciplina" derivante dagli accordi di comparto "resta ferma sino al 31 dicembre 1993" con la conseguenza che "i nuovi accordi avranno effetto dal 1 gennaio 1994".

In tal modo, muovendo dal presupposto di fatto, corrispondente a realtà, riguardo al non ancora avvenuto rinnovo generalizzato dei contratti nazionali del pubblico impiego relativi al triennio 1991-1993 e, quindi, partendo dalla corretta considerazione che al momento gli accordi vigenti erano quelli relativi al periodo 1988-1990, l'art. 7, primo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992 ha disposto per questi ultimi la stabilizzazione della loro ultrattività sino al 31 dicembre 1993 e, conseguentemente, ha spostato ex lege l'inizio di efficacia degli accordi "nuovi" (rispetto a quelli relativi al periodo 1988-1990) al 1o gennaio 1994.

Così interpretata, tale norma eccezionale, dettata dall'emergenza economica, è coerente con le altre disposizioni contenute nell'art. 7 del ricordato decreto- legge, le quali concorrono con essa a realizzare una finalità di sostanziale cristallizzazione del globale trattamento economico in atto dei dipendenti pubblici. A tale scopo, infatti, sono diretti: il blocco per tutto il 1993 degli incrementi retributivi derivanti da automatismi stipendiali (art. 7, secondo e terzo comma), il contenimento dei fondi di incentivazione relativi al 1993 entro i limiti degli stanziamenti di bilancio stabiliti per il 1991 (art. 7, quarto comma), il congelamento sui valori sussistenti nel 1992 delle indennità, dei compensi e delle gratifiche (art. 7, quinto comma) e, infine, la variazione delle indennità di missione e di trasferimento entro i limiti coincidenti con il tetto programmato d'inflazione (art. 7, sesto comma).

L'art. 7 contiene, in altri termini, una serie di norme diretta a colpire tutti gli elementi significativi del trattamento economico dei dipendenti pubblici e tutti i contratti che a questi si riferiscono. Di modo che, nelle pur rare ipotesi di accordi relativi al triennio 1991-1993 già stipulati (com'è nel caso dell'accordo recepito dall'atto impugnato), l'art. 7, primo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992 viene ad esercitare in relazione al caso di specie una efficacia retroattiva. Ma questo atteggiarsi in concreto come norma producente effetti retroattivi, rispetto a ipotesi peraltro isolate nell'ambito della situazione generale del pubblico impiego, non è certo irragionevole o ingiustificato tanto con riferimento alla ratio della norma stessa (la cui finalità di contenimento del disavanzo pubblico può essere efficacemente perseguita soltanto da un divieto realmente generalizzato di eventuali sfondamenti del limite posto), quanto con riferimento all'imperativo costituzionale comportato dal principio di eguaglianza, per il quale il legislatore è tenuto a distribuire i sacrifici derivanti da una politica economica di emergenza nel più totale rispetto di una sostanziale parità di trattamento fra tutti i cittadini.

4.- Posto che con la disciplina normativa stabilita dall'art. 7, primo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992, illustrata al numero precedente, il decreto del Presidente della Giunta della Regione Sardegna 8 settembre 1992, n. 212, che recepisce l'accordo di comparto per i dipendenti pubblici regionali valido per il triennio 1991-1993, è realmente confliggente, occorre verificare se la predetta disposizione del decreto-legge abbia una natura tale da potersi imporre a un atto, come il decreto impugnato, che è esercizio della competenza di tipo esclusivo attribuita alla Sardegna dagli artt. 3, lettera a), e 6 dello Statuto speciale.

Come si è già precisato nel punto precedente della motivazione, l'art. 7, primo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992 è rivolto a integrare, se pure prevedendo una deroga eccezionale e temporanea, la disciplina sull'efficacia temporale degli accordi collettivi stabilita dall'art. 13 della legge n. 93 del 1983. Al pari dell'articolo da ultimo menzionato, pertanto, l'art. 7 concerne un aspetto essenziale del principio della contrattazione collettiva disciplinato dall'art. 3 della legge-quadro sul pubblico impiego, più volte riconosciuto da questa Corte come "norma fondamentale delle riforme economico-sociali" (v. sentt. nn.356 del 1992, 217 del 1987 e 219 del 1984). Infatti, la determinazione uniforme della cadenza temporale degli accordi collettivi nel pubblico impiego - e, con essa, l'insieme delle norme che ne disciplinano le vicende o ne prevedono le deroghe - sono strettamente funzionali alla finalità generale e all'indirizzo riformatore del settore, identificato dalla stessa legge-quadro sul pubblico impiego nella omogeneizzazione del trattamento economico dei dipendenti.

Tra l'art. 7 del decreto-legge n. 384 del 1992 e l'art. 13 della legge n. 93 del 1983 non sussiste, in ogni caso, soltanto un legame formale, nel senso che i due articoli fanno sistema dal punto di vista giuridico. Essi sono uniti, altresì, da una stessa connotazione sostanziale, tanto che nell'art.7, come già nell'art. 13, si riscontrano i caratteri propri delle "norme fondamentali delle riforme economico-sociali": la profonda innovatività del contenuto normativo, tenuto conto anche delle motivazioni e delle finalità perseguite dal legislatore; l'incidenza su settori di importanza essenziale per la vita della comunità intera; la caratterizzazione delle norme previste come principi generali, che esigono un'attuazione uniforme su tutto il territorio nazionale (v., ad esempio, sentt. nn. 188, 356 e 366 del 1992; 349, 386 e 493 del 1991; 274, 1002 e 1033 del 1988). Non v'è dubbio, infatti, che le misure predisposte dal decreto-legge n. 384 del 1992, comprese quelle contenute nell'art. 7, muovono da una non irragionevole valutazione della situazione sociale ed economico-finanziaria, operata dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità politica, in base alla quale il congelamento temporaneo delle retribuzioni dei dipendenti pubblici, attuato in modo generalizzato e nel rigoroso rispetto del dovere costituzionale di distribuire in modo eguale il carico dei sacrifici imposti dall'emergenza, costituisce una componente essenziale di un disegno di politica economica destinato, nel complesso dei suoi elementi e delle sue fasi, a trasformare profondamente la situazione di grave squilibrio finanziario esistente nel settore pubblico.

Rispetto a questa conclusione non può certo trarsi argomento contrario dal carattere eccezionale e temporaneo delle norme poste dal ricordato art. 7, primo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992. Questa Corte, infatti, ha già precisato (v. sentt. nn.493 del 1991 e 274 del 1988) che quel carattere non conduce necessariamente a escludere la qualificazione di norma fondamentale di riforma economico-sociale quando la natura dell'intervento, come si è rivelato essere nel caso in questione, sia tale da indurre a classificare la disposizione che lo prevede nella categoria delle norme in considerazione.

5.- In ragione della connotazione dell'art. 7, primo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992 come norma fondamentale di riforma economico-sociale, ai sensi dell'art.3 dello Statuto speciale per la Sardegna, la disposizione relativa al temporaneo blocco degli accordi del pubblico impiego sino all'inizio del triennio successivo (1 gennaio 1994), congiuntamente con quella concernente la conseguente ultrattività ex lege stabilmente conferita agli accordi precedenti (quelli riferiti al triennio 1988-1990), si applica con carattere di uniformità su tutto il territorio nazionale e, integrando la legge regionale che prevede, al pari della legge statale, la triennalità degli accordi, vincola anche la Regione Sardegna nell'esercizio delle sue competenze esclusive in materia di trattamento economico dei propri dipendenti.

Da questa sostanziale natura del ricordato art. 7, e non già - come vorrebbe il ricorrente - dalla introduzione in sede di conversione del decreto-legge della clausola di generale applicabilità a tutte le regioni, incluse quelle ad autonomia differenziata, delle norme contenute nel decreto- legge stesso (art. 13 ter), deriva il vincolo verso l'amministrazione della Regione Sardegna a non dare efficacia agli accordi di comparto per i propri dipendenti relativi al triennio 1991-1993. Nè il rilievo che l'atto oggetto del presente conflitto sia stato adottata ed emanato in data anteriore (8 settembre 1992) a quella del decreto-legge n.384 (19 settembre 1992) vale a salvare il decreto impugnato dal giudizio di illegittima menomazione dell'esercizio di competenze statali. In realtà, il fatto che il ricordato art.7, primo comma, prevede una restrizione generalizzata della spesa pubblica destinata al pagamento del trattamento economico dei dipendenti, inclusi quelli degli enti regionali e locali, al fine di coinvolgere tutte le amministrazioni pubbliche nella difficile opera di risanamento del disavanzo esistente nel settore, esclude che possano giustificarsi esenzioni limitate a singole aree del Paese o a singoli comparti e preclude la possibilità di rinvenire motivi di irragionevolezza nella efficacia retroattiva dello stesso art.7 nei confronti dell'atto impugnato.

Dalle considerazioni precedentemente svolte consegue che il decreto del Presidente della Giunta della Regione Sardegna 8 settembre 1992, n. 212, dopo l'entrata in vigore del decreto- legge n. 384 del 1992, che deroga alla triennalità degli accordi disposta dall'art. 13 della legge n. 93 del 1983 e dalla corrispondente disposizione regionale (art. 4, ultimo comma, L.R. n.33 del 1984), costituisce un esercizio di attribuzioni esclusive regionali che menoma l'integrità della competenza statale in ordine alla determinazione uniforme e generalizzata della disciplina eccezionale stabilita dall'art.7, primo comma, del citato decreto-legge. Deve, quindi, esser affermata la non spettanza alla Regione Sardegna del potere di conferire efficacia all'accordo di comparto per il personale dipendente dalla amministrazione della Regione stessa e dagli enti strumentali regionali relativo al triennio 1991-1993, recepito con il decreto del Presidente della Giunta della Regione Sardegna 8 settembre 1992, n. 212.

Restano assorbiti gli ulteriori profili addotti dal ricorso per conflitto di attribuzione ora esaminato.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara che non spetta alla Regione Sardegna conferire efficacia all'accordo di comparto per il personale dipendente dalla amministrazione della Regione stessa e dagli enti strumentali regionali relativo al triennio 1991-1993 e, conseguentemente, annulla il decreto del Presidente della Giunta regionale 8 settembre 1992, n. 212, indicato in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24/06/93.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Antonio BALDASSARRE, Redattore

Depositata in cancelleria il 01/07/93.