IL MOBBING E L'INIZIATIVA SINDACALE

 

INTRODUZIONE

 

Da quando, nel 1986, lo psicologo tedesco Heinz Leymann ha parlato per primo del fenomeno definendolo come terrorismo psicologico sul luogo di lavoro, il "caso mobbing" ha fatto passi da gigante: ora è considerata una delle più diffuse, discusse e meno conosciute sindromi del nostro tempo. Si stima che nel nostro Paese siano almeno un milione le persone sottoposte a questo tipo di vessazione che prende il nome di bossing quando è programmato dall'azienda stessa o dai vertici dirigenziali.

 

Il mobbing ha e può avere effetti disastrosi per la salute: tra i primi sintomi ci sono la depressione e una serie di disturbi fisici. Ma dal calo di autostima si può arrivare perfino al suicidio. I dati indicano come oggi il mobbing sia una sorta di malattia sociale a carattere trasversale che colpisce i lavoratori degli enti pubblici e privati, le grandi città e i piccoli centri, le fabbriche delle multinazionali e le aziende a conduzione familiare.

 

APPROCCIO PER L’INIZIATIVA SINDACALE

 

Cosa è veramente il Mobbing? Finora il mobbing è stato esclusivo o prevalente campo d’indagine della psicologia del lavoro. Se questo è vero è facile immaginare quante difficoltà possano avere i delegati o i Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza per allargare al Mobbing la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori e ancor più alla individuazione delle misure idonee per affrontarli e prevenirli.

 

Allora quale approccio sindacale è possibile al problema del Mobbing?

Per i sindacati confederali il "mobbing" viene trattato come fenomeno non legato direttamente all'organizzazione del lavoro e al funzionamento delle aziende e degli enti ma come una sorta di malfunzionamento, anzi teorizzano un interesse comune tra dirigenza e lavoratori nella lotta comune contro il mobbing.

 

La realtà, senza togliere nulla ad un dibattito ancora da sviluppare, è ben diversa: il mobbing è direttamente legato alle attuali tendenze, politiche, sindacali e culturali nell'organizzazione del lavoro e nelle politiche contrattuali.

 

In una situazione aziendale in cui domina riconosciuta e applicata, anche dai sindacati, una logica della massima produttività, del merito individuale, della competizione tra gli stessi dipendenti e reparti non possiamo meravigliarci se aumentano i casi di mobbing: chi non produce, chi mette i bastoni tra le ruote, chi per motivi politici, personali o caratteriali non è perfettamente funzionale allo "stile" del reparto o dell'azienda è un candidato ideale per essere mobbizzato, purtroppo anche con la complicità dei colleghi che magari individuano nel soggetto il mitico "capro espiatorio" delle condizioni di lavoro (esempio classico e banale il problema del sottorganico invece dell'assenteismo).

 

Il mobbing, quindi, deve essere inquadrato nelle condizioni di lavoro concrete e dobbiamo proporre una definizione semplice del fenomeno come di violenza psicologica sul luogo di lavoro funzionale al generale contesto di oppressione e sfruttamento che caratterizza il lavoro dipendente (e non solo quello).

 

Da queste considerazioni ne deriva che il tema del mobbing deve essere compreso all'interno delle iniziative sull'organizzazione e sulle condizioni del lavoro, il tema della violenza psicologica sul lavoro non può essere affrontata seriamente aggirando il problema delle condizioni di lavoro.

Fatta questa premessa il Mobbing rimane tecnicamente un fenomeno dai contorni confusi: i nuovi esperti del settore parlano addirittura di una "mina vagante" evocando i casi limite di assurdi suicidi, omicidi o di quelle imprevedibili stragi di familiari o di gente inconsapevole che riempiono anche le nostre cronache: in Svezia il 10-20% dei suicidi sarebbe riconducibile al Mobbig . In Italia tale percentuale sarebbe del 13%.

Gli altri effetti lesivi sulla persona sono molteplici: danni fisici e psicologici, disturbi psicosomatici, stati depressivi, infortuni ecc.

 

Il maggior numero di casi di Mobbing si registra nel pubblico impiego (22% PA, 8% sanità, 12% scuola/università, 38/% industria e servizi, 3% commercio, 2% agricoltura, altro – tra cui credito e poste – 15%). Il numero di casi aumenta con il numero di dipendenti: 2% sotto gli 11 dipendenti, 9% da 11 a 30, 9% da 31 a 50, 13% da 51 a 100, 28% da 101 a 500, 39% sopra i 500). Non si registra nessun caso in agricoltura e nel commercio sotto i 50 dipendenti.

 

La direttiva quadro 89/391 della CEE, recepita in Italia con il D.Lgs 626/94, prevede tra gli obblighi generali del datore di lavoro la valutazione e l’intervento su ogni tipo di rischio e quindi anche sulla violenza sul lavoro, sia fisica che psicologica.

 

Dunque occorrerebbe analizzare tempestivamente la causa, l’origine di ogni caso di violenza psicologica sul lavoro. Quando un’azienda non "cura" questo aspetto ma addirittura utilizza il mobbing gli effetti negativi non tarderanno a manifestarsi.

Una volta individuate le possibili cause dell’insorgere della violenza psicologica nel luogo di lavoro bisognerà immediatamente individuare quelle azioni capaci di prevenire il fenomeno. Tutti gli studiosi di Mobbing sono infatti concordi nel sostenere che non ci sono molte possibilità di uscita dalla sindrome se questa si avvia alla sua quarta fase, cioè all’allontanamento della vittima dal posto di lavoro per licenziamento o dimissioni. A questo stadio del problema non restano che interventi a posteriori di risarcimento o tutela assicurativa, giudiziaria e di cura della salute mentale.

 

Le modalità e gli strumenti per prevenire l’insorgere della violenza psicologica sul lavoro alcuni elementi chiave da collegare a quanto detto in premessa premessa:

Il primo riguarda il far "emergere" il problema nei confronti delle aziende, dei lavoratori, dei servizi aziendali e degli RLS rispetto al problema violenza che deve essere riconosciuto nella sua estensione e pericolosità non solo per il singolo individuo ma anche per gli altri (e anche per l’azienda stessa).

Il passo successivo al riconoscimento deve essere quello della esplicita dichiarazione che nell’azienda, nell'ente non può essere utilizzata e tollerata nessuna situazione di violenza psicologica nel corso dell’attività lavorativa. Queste rivendicazioni devono essere poste alla direzione dell'azienda e non solo alla struttura che gestisce il sistema di gestione della sicurezza aziendale.

Seguono conseguentemente le opportune iniziative di informazione e formazione di tutti i dirigenti e dei dipendenti su questo specifico tipo di rischio lavorativo.

Infine devono essere previste le opportune modalità di primo intervento soprattutto ricorrendo anche a competenze esterne verificando e attivando i specifici servizi dell'ASL in caso di sospetta insorgenza del fenomeno.

E' importante considerare che l'attività e l'iniziativa sindacale non deve e non può sostituirsi ai servizi socio-sanitari per quanto riguarda l'aspetto "salute" del problema individuale, al sindacato spetta soprattutto la gestione "politica" della situazione più generale e tutelare, tramite i propri servizi di assistenza, il singolo caso.

 

SCHEDA TECNICA SUL DANNO DA "MOBBING"

 

Definizione

Il mobbing è una forma di terrore psicologico, caratterizzato dalla ripetizione protratta nel tempo, che viene esercitata sul posto di lavoro, ad opera di un superiore o di colleghi di lavoro singoli o in gruppo, con lo scopo di eliminare una persona ritenuta scomoda. Le forme che esso può assumere sono molteplici: dalla semplice emarginazione alla diffusione di maldicenze, dalle continue critiche alla sistematica persecuzione, dall’assegnazione di compiti dequalificanti alla compromissione dell’immagine sociale nei confronti di clienti e superiori.

 

Riportiamo alcune definizioni partendo da quella di Heinz Leymann, a cui si devono i primi studi e la formulazione teorica, negli anni '80, del mobbing: “In caso di conflitto, le azioni che hanno la funzione di manipolare la persona in senso non amichevole, si possono distinguere in tre gruppi di forme di comportamento. Un gruppo di azioni verte sulla comunicazione con la persona attaccata. Un altro gruppo di comportamenti punta sulla reputazione della persona, utilizzando strategie per distruggerla. Infine le azioni del terzo gruppo tendono a manipolare la prestazione della persona per punirla. Alcuni di questi comportamenti si possono trovare nella comunicazione umana quotidiana o durante casuali litigi. Solo se queste azioni vengono compiute di proposito, frequentemente e per molto tempo, si possono chiamare mobbing”.

 

Dall’Ente Nazionale per la Salute e la Sicurezza svedese (la Svezia è il primo paese ad aver adottato una legge che riconosce il mobbing come malattia professionale): “per persecuzione si intendono ricorrenti azioni riprovevoli o chiaramente ostili intraprese nei confronti di singoli lavoratori, in modo offensivo, tali da determinare l’allontanamento di questi lavoratori dalla collettività che opera nei luoghi di lavoro”. Harald Ege afferma: “con la parola Mobbing si intende una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori”.

 

Due condizioni devono essere assolte affinché si possa affermare di trovarsi in presenza di mobbing: la durata e la ripetitività ”. Mobbing di tipo verticale: quando la violenza psicologica viene posta in essere nei confronti della vittima da un superiore (nella terminologia anglosassone questa forma viene anche definita bossing o bullying);

- bossing: azione compiuta dall’azienda o dalla direzione del personale nei confronti di dipendenti divenuti scomodi. Si tratta dunque di una strategia aziendale di riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione degli organici (detto anche mobbing pianificato);

-bullying: indica i comportamenti vessatori messi in atto da un singolo capo.

Mobbing di tipo orizzontale: quando l’azione discriminatoria è messa in atto dai colleghi nei confronti del soggetto colpito.

Mobbing individuale: quando oggetto è il singolo lavoratore.

Mobbing collettivo: quando colpiti da atti discriminatori sono gruppi di lavoratori (si pensi alle ristrutturazioni aziendali, prepensionamenti, cassa integrazione etc.)

Mobbing dal basso sia individuale che collettivo: quando viene messa in

discussione l’autorità di un superiore (ma su questa potremo aprire una diversa discussione).

A queste forme si deve affiancare una forma di mobbing definibile sessuale anche se non caratterizzato da contatto fisico.

 

La violenza morale può manifestarsi con una molteplicità di aspetti (che riportiamo, sapendo che è impossibile mettere insieme in modo sistematico tutte le possibili azioni mobbizzanti):

1) impedire al lavoratore di esprimersi / attacchi alla possibilità di esprimersi;

2) isolare il lavoratore (privarlo dei mezzi di comunicazione: telefono, computer, posta.), bloccare il flusso d’informazioni necessarie al lavoro, estromettere dalle decisioni, impedire che gli altri lavoratori gli rivolgano la parola, negare la sua presenza, comportarsi come se il mobizzato non ci fosse, trasferirlo in luoghi isolati o comportanti lunghi tempi di percorrenza, etc);

3) discreditare il lavoratore / attacchi contro la reputazione (ridicolarizzarlo, umiliarlo, attaccare le sue convinzioni religiose, sessuali, morali, calunniare membri della sua famiglia;

4) ridurre la considerazione di sé del lavoratore (privarlo degli status symbol, non attribuirgli incarichi, attribuirgli incarichi inferiori o superiore alle sue competenze, simulare errori professionali, continue critiche alle prestazioni o alle sue capacità professionali anche di fronte a soggetti esterni all’impresa ma anche critiche soggettive, applicare sanzioni amministrative senza motivo apparente e senza motivazioni; consegne volutamente confuse, contraddittorie e/o lacunose; azioni di sabotaggio, etc);

5) compromettere il suo stato di salute (diniego di periodi di ferie o di congedo, attribuzione di mansioni a rischio o con turni massacranti etc);

6) cambio di mansioni;

7) violenza o minaccia di violenza.

In alcuni casi si tenta di determinare comportamenti incontrollati da parte del mobizzato in quanto tale comportamento irresponsabile della vittima può divenire un insindacabile motivo di licenziamento. Molte delle azioni, sopra elencate, possono anche essere assolutamente normali, cioè dettate da momenti contingenti: si parla di mobbing quando una o più di queste azioni diviene sistematica ed a lungo termine.

 

I diversi ricercatori hanno tentato una sua suddivisione in fasi.

0) condizione zero;

1) conflitto mirato;

2) inizio del mobbing;

3) primi sintomi psico-somatici;

4) errori ed abusi dell’amministrazione del personale;

5) serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima;

6) esclusione dal mondo del lavoro.

 

Gli studi italiani dimostrano che è più frequente nelle realtà grandi con una certa quota di anonimato e nei reparti amministrativi o dei servizi e che colpisce maggiormente la fascia 41-50 anni e molto raramente i lavoratori sotto i 30 anni. Tali studi dimostrano inoltre che nelle nostre realtà è molto raro il mobbing dal basso.

 

Il mobizzato può presentare una lunga serie di disturbi, somatizzazioni e vere e proprie malattie che possono protrarsi per un lungo periodo o divenire croniche ed irreversibili raggiungendo anche quadri di severa gravità. Nella maggior parte dei casi una vittima di mobbing accusa sintomi e malesseri a carico di organi od apparati già sede in passato di disturbi o patologie.

 

Sintomi fisici:

1) eruzioni cutanee,

2) abbassamento delle difese immunitarie (tosse, raffreddore, influenza, maggiore vulnerabilità alle malattie),

3) disturbi tiroidei,

4) disturbi cardiaci: tachicardia, senso di oppressione, ipertensione,

5) problemi delle funzioni gastriche e digestive: bulimia, gastrite, ulcera,

6) disturbi intestinali,

7) disturbi della sfera sessuale,

8) dolori osteoarticolari,

9) astenia.

 

Sintomi psichici:

1) manifestazioni psicosomatiche (sono le prime a manifestarsi): perdita di concentrazione, di memoria, turbe del sonno, cefalee, sudorazione;

2) agitazione / irrequietezza;

3) sindromi ansiose;

4) depressioni con fissazione del pensiero sul proprio problema, abuso nei consumi di sigarette, caffè, analgesici, stimolanti, alcolici etc,

5) disturbi comportamentali che impediscono la partecipazione alla vita lavorativa fino all’espulsione dal mondo del lavoro (attacchi di panico, disistima etc);

6) alterazioni della personalità (fino al suicidio).

 

Aspetti medico-legali

Il mobbing può determinare tre, diverse, fattispecie di danno.

Danno alla salute

Si tratta del danno che deriva dalla compromissione del bene – salute – costituzionalmente protetto e che costituisce un valore fondato sulla integrità psico-fisica della persona, integrità da cui deriva lo stato di benessere personale e la possibilità di ggodere della salute, di poter svolgere la vita per tutta la sua durata secondo le ordinarie attività proprie del consorzio in cui il soggetto vive, di poter realizzare il personale progetto di vita, comprendendo in ciò le relazioni interpersonali e sociali. Si tratta di un bene che ha caratteristiche comuni con tutti i componenti del consorzio civile e che prescinde dalla posizione culturale, economica e sociale della persona, essendo per questo da valutare con criteri egualitari. In una tale situazione appare evidente la compromissione degli aspetti fisici e psichici dello stato di salute ma anche l’incremento della morbilità e per una attendibile riduzione della durata della vita.

 

In base all’articolo 2087 del codice civile il datore di lavoro deve prevenire i danni alla salute, adottando tutti gli strumenti resi disponibili dall’attuale stato della scienza e della tecnica benché non espressamente contemplati dalle norme antifortunistiche. Concetto questo ribadito ed esteso dall’articolo 3 del decreto legislativo n° 626/94 che impone, fra le misure di tutela al punto f), il “rispetto dei principi ergonomici nella concezione dei posti di lavoro…e nella definizione dei metodi di lavoro”.

 

Il datore di lavoro è tenuto al risarcimento sia del danno patrimoniale che di quello non patrimoniale (danno biologico e danno morale) qualora il lavoratore possa dimostrare non solo di aver subito una lesione fisica o psichica (lesione che, come ha indicato il Tribunale di Torino, Sez. lavoro 1° grado del 16 novembre 1999, può anche essere non permanente) e che la lesione è dovuta al lavoro ma anche che vi è stato un illecito nel comportamento che ha cagionato tale danno, deve cioè provare la condotta dolosa o colposa del molestatore oppure che sia accertato un inadempimento contrattuale. (vedi Cassazione n° 475 del 19 gennaio 1999).

 

Per quanto riguarda il danno biologico dobbiamo concentrare la nostra attenzione su quello di natura psichica che costituisce una conseguenza tipica delle molestie morali. In questo ambito di danno va riconsiderato anche l’aspetto definito “doppio mobbing” che è legato al ruolo particolare che la famiglia ricopre nella società italiana con trasferimento delle “sofferenze” all’interno della famiglia, sapendo che il mobbing è una forma di persecuzione subdola perché è spesso composta di tante piccole ingiustizie, messaggi non verbali, sottintesi che non sempre riescono ad assumere una visibilità esterna ancor più quando l’ambiente di lavoro denuncia dei limiti di solidarietà.

A tale proposito ricordiamo che è evidente che “un collega mobber ha sempre bisogno di una sorta di "permesso" da parte del capo a mobizzare qualcuno”.

 

Con l’articolo 13 del decreto legislativo n° 38/2000, la cui applicazione è subordinata all’approvazione delle tabelle valutative con decreto del ministero del lavoro è stata introdotta la tutela di tale danno che viene definito, in via sperimentale, come “la lesione all’integrità psico-fisica, suscettibile di valutazione medico-legale, della persona” e che, dunque, sarà indennizzato dall'INAIL. Dall'entrata in vigore di tale decreto al lavoratore residuerà in via esclusiva l'azione per l'eventuale risarcimento del danno morale.

 

Riduzione della capacità lavorativa specifica:

Trattasi di una valutazione che deve fare riferimento, necessariamente, alle caratteristiche professionali del lavoratore, sia a quelle acquisite con apposita formazione professionale che a quelle formate attraverso l’esperienza cumulata con l’esercizio delle attività lavorative, quindi con una particolare attenzione all'anamnesi lavorativa ed alle attività consentite.

 

Inabilità permanente parziale o assoluta:

Trattasi del danno permanente alla capacità lavorativa generica di cui al T.U., DPR n° 1124/65.

 

Riconoscimento in ambito INAIL

l mobbing può causare anche malattie professionali e, quindi, può costituire reato, il delitto di lesione personale colposa previsto e punito dall’articolo 590 del C.P.”.

I danni da mobbing rientrano in Germania nella casistica delle malattie professionali.

I casi di mobbing possono, dunque, essere denunciati all’INAIL in base alla sentenza della Corte Costituzionale n° 179/89 cioè come malattie professionali non tabellate per cui spetta al lavoratore l’onere della prova dell’origine professionale, concetto questo ribadito dall'articolo 10 del decreto legislativo n° 38/2000. Prova non sempre facile in quanto ogni forma di provocazione o di aggressione deve essere dimostrata e la difficoltà consiste spesso nel disporre di prove flagranti, anche perché talora non sono presenti manifestazioni di solidarietà da parte dei compagni di lavoro. Si tratta, dunque, per il lavoratore di raccogliere documentazioni relative ad eventuali provvedimenti: lettere di richiamo o di biasimo, modifica di mansioni, trasferimento di sede di lavoro, spostamento di ufficio, etc.

In questo caso la diagnosi e la prova dell’origine professionale si intersecano profondamente in quanto gli elementi che dimostrano l’origine professionale sono esattamente gli stessi che permettono di porre diagnosi di “violenza morale in ambito lavorativo”. Numerosi specialisti, ritengono che vi sia mobbing nel momento in cui i comportamenti violenti si manifestano per un periodo di almeno 6 mesi, con una frequenza almeno settimanale degli episodi di violenza, in una situazione in cui non sia prevedibile alcuna reazione collettiva. Per quanto concerne specificamente il nostro Paese gli studi indicano una durata del mobbing assai più lunga da 3 ad oltre 5 anni.

Una volta attuata la distinzione fra azioni mobizzanti e mobbing vero e proprio (le prime sono eventi traumatizzanti ma a carattere sporadico spesso derivanti da fattori caratteriali o situazionali destinati a ricomporsi automaticamente, mentre il mobbing si manifesta come una azione o una serie di azioni che si ripete per un lungo periodo di tempo quasi sempre in modo sistemico e con uno scopo preciso), diviene dunque fondamentale una corretta anamnesi lavorativa che si concentri sui seguenti punti:

 

1) grandezza dell’azienda e del reparto del mobizzato, settore produttivo;

2) storia lavorativa all’interno dell’azienda e determinazione temporale dell’attività in cui il lavoratore avrebbe subito il mobbing;

3) contesto nel quale si inseriscono le azioni potenzialmente mobizzanti;

4) durata della violenza morale in numero di mesi ;

5) frequenza degli attacchi ,

6) caratteristiche e modalità degli attacchi subiti;

7) numero dei soggetti praticanti tali violenze e loro ruolo all’interno dell’azienda

8) vi sono state forme di violenza sessuale e se si di che tipo?;

9) valutazione del lavoratore sulle eventuali motivazioni del  mobbing;

10) eventuale coinvolgimento dei colleghi o dei superiori gerarchici da parte del mobbizzato;

11) situazione interna all’azienda (periodi di riduzione del personale, ristrutturazioni etc);

12) epoca di esordio delle manifestazioni patologiche;

13) definizione esatta delle diverse patologie con attenzione anche allo stato di salute anteriore,

14) valutazione soggettiva dell’autostima del lavoratore riferito all’epoca precedente e successiva le azioni di mobbing.

 

Vanno poi raccolte informazioni e/o documentazioni relative ad eventuali provvedimenti: lettere di richiamo, di biasimo, modifica di mansioni, trasferimento di sede di lavoro, ordini di servizio, spostamento di ufficio etc).

Una particolare attenzione va posta anche alla struttura psicologica del soggetto in quanto è chiaro che non tutti reagiscono nello stesso modo alla stessa quantità di stress: c’è chi possiede anticorpi psicologici per cui è in grado di neutralizzare per un periodo di tempo maggiore gli effetti dannosi sull’organismo.

 

Valutazione del danno psichico in ambito INAIL

La valutazione del danno permanente da parte dell’INAIL comporta talune difficoltà determinate in parte dalle caratteristiche delle tabelle valutative annesse al T.U., DPR n° 1124/65, che comportano che talora si proceda con metodo analogico. In ogni caso resta fermo l’ineludibile riferimento al grado di riduzione della attitudine lavorativa ed alla concreta spendibilità lavorativa della funzione residuata. che fanno riferimento alla capacità lavorativa.

Tale valutazione dovrebbe essere fatta, come anche confermato nel recente decreto di modifica, all’atto della stabilizzazione del danno, che in genere, quando riguarda la sfera psichica, pretende tempi lunghi, come del pari lunghi appaiono i periodi di inabilità assoluta temporanea che mai come in questo caso assumono rilievo ai fini della prevenzione di maggiori danni.

Si tratterà di pervenire ad una valutazione non appena il quadro sintomatologico appaia consolidato, dovendosi tenere conto della caratteristica oscillante di tale danno anche ai fini delle eventuali ricadute.

In primo luogo si può partire, avendo chiare le diversità, per quanto concerne essenzialmente la capacità lavorativa dalle valutazioni previste dalle tabelle dell’invalidità civile.

Scarsa è stata anche l’attenzione dell’Istituto assicuratore a riguardo di questa tipologia di danno, con una attenzione rivolta al solo lato infortunistico.

 

Riconoscimento come "causa di servizio"

Due sono gli elementi rispetto ai quali appare utile richiamare l’attenzione anche alla luce della particolare caratteristica del nostro paese in cui, unico caso in Europa, il pubblico impiego partecipa in maniera significativa (oltre al 30%) alla casistica sul mobbing.

In linea generale la predisposizione organica a contrarre una determinata malattia o la sua preesistenza all’assunzione in servizio non costituiscono di per sé preclusione al riconoscimento della dipendenza da causa, o per meglio dire, concausa di servizio, né quindi del diritto all’equo indennizzo, dovendosi considerare se l’attività svolta abbia facilitato o accelerato l’insorgenza della malattia o ne abbia aggravato o accelerato il decorso, contribuendo all’insorgenza di esiti più gravi.

Inoltre, per dottrina costante, il dies a quo semestrale decorre dal momento in cui il dipendente abbia avuto piena consapevolezza della dipendenza della patologia da causa di servizio.

Si può affermare che la tempestività della domanda di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio decorre non entro i sei mesi dal momento in cui si è manifestata l’infermità ma entro i sei mesi in cui si sono conclamati gli esiti dannosi stabilizzati dell’infermità. Occorre dunque che la domanda di riconoscimento e la relativa certificazione medica e specialistica siano finalizzati al quadro menomativo a carattere permanente.

A tale riguardo afferma il Consiglio di Stato Sez. IV n° 639 del 30 aprile 1993: “per le malattie che col decorso del tempo diventano permanenti, il dipendente può proporre domanda di accertamento della dipendenza da causa di servizio entro il termine semestrale decorrente dalla conoscenza della permanenza della malattia” (vedi anche Consiglio di Stato Sez. IV n° 365 del 4 maggio 1988, Consiglio di Stato Sez. IV n° 951 del 9 maggio 1992, Consiglio di Stato Sez. IV n° 868 del 15 giugno 1993, etc).

Nella valutazione del danno si farà ricorso alle tabelle di legge che per quanto concerne le patologie di tipo psichiatrico sono purtroppo lacunose.